mercoledì 19 marzo 2014

INTERVISTA A CARLO SPERDUTI

Salve, lettori compulsivi. Oggi voglio presentarvi lo scrittore romano Carlo Sperduti, che ho incontrato venerdì 14 marzo al reading Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi che si è tenuto presso la libreria Il Ghigno a Molfetta (la mia città). Poco prima di questo incontro, ho potuto incontrare questo autore e intervistarlo. La chiacchierata è stata divertente e istruttiva, così come la serata che ne è seguita. Ho registrato l'intervista e vi riporto la trascrizione.
Chi Carlo Sperduti? Classe 19, leone, ha frequentato il liceo scientifico e si è laureato in Lettere e Filosofia. Non è un attore, nonostante legga come fosse tale.



BIANCANEVE (B): Ciao Carlo, grazie per avermi concesso questa intervista e benvenuto nel mio blog, Biancaneve critica. Mi rifaccio all'idea del veleno, della critica avvelenata, deriva da là il titolo. Un po’ contorta come cosa.
CARLO SPERDUTI (CS): (ride) è una minaccia, quindi.
B: Sì, abbastanza. Bene, parlami un po’ di te, presentati ai miei lettori.
CS: Stai registrando, questa cosa non mi era mai successa! (ride un po’ imbarazzato). Ciao, sono Carlo Sperduti e – che faccio? – scrivo racconti, fondamentalmente perché mi piace la forma breve. I miei autori di riferimento sono tutti maestri della forma breve. Questo naturalmente non vuole che non leggo romanzi, però mi piacciono le strutture cristalline: tutto quello che nel romanzo è necessario, ad esempio tutto quello che riguarda la digressione o il dilungarsi, nel racconto è spazzata via perché in poche cartelle – per usare un termine editoriale abbastanza brutto – non bisogna sbagliare una parola e neanche una virgola. Quando si riesce a fare questo e, in quel poco spazio, creare un mondo altro, si è fatta un opera letteraria di un certo livello. Ti faccio un esempio banale per spiegarti quello che intendo: se si legge un qualsiasi racconto di Borges si ha un’idea di quello che sto dicendo a proposito del racconto breve. Uno qualsiasi dei Racconti delle finzioni è un cristallo, una geometria perfetta, ma è anche un mondo a parte. E riuscire a farlo in cinque pagine per me è ha del miracoloso. È tutto molto studiato e apprezzo proprio questo.
Questa da cui leggiamo qualcosa stasera è una raccolta, una miscellanea nel senso che è una cosa costruita a posteriori, non è nata come raccolta vera e propria, ma è un compendio dei racconti brevi e brevissimi che ho scritto negli ultimi quattro o cinque anni. Il criterio di selezione per la maggior parte della sezione dell’Intermezzo tragico che si commenta da sé è quella della cretineria, cioè ho preso i racconti più stupidi che io abbia mai scritto e li ho messi là dentro. Tutto qua.
B: Già in precedenza avevi pubblicato un altro libro…
CS: Sì, nel dicembre 2013, insieme a questa raccolta è uscito un libro con Intermezzi editore che si chiama Valentina controvento, che è in realtà un ebook, anche se c’è poi un’edizione limitata cartacea, che è in una collana che si chiama Ottantamila, che sarebbe il limite massimo di battute consentite a ogni autore: dalle quaranta alle ottantamila, quindi né un romanzo né un racconto vero e proprio, una via di mezzo, insomma. È la storia di una ragazza che deve progettare un macchinario contro la caduta dei cappelli, che è una tragedia che ci riguarda tutti, soprattutto quando tira molto vento. E sempre con Intermezzi un paio di anni fa ho pubblicato un romanzo breve tra il surreale e il metaletterario che si chiama Caterina fu gettata. In tutti e due i casi, il titolo precedeva la storia, cioè ho inventato prima il titolo e poi ci ho scritto la storia, come regola così, aleatoria.
B: Beato te! Io ho problemi a trovare i titoli…
CS: Questi sono facili perché sono ottonarie – taratara taratara: Caterina fu gettata, Valentina controvento. È sempre la stessa scansione, la stessa metrica.
B: Oltre Borges, hai qualche altro autore di riferimento a cui ti ispiri?
CS: Quanto tempo hai? (ride). Vabbè, rimanendo sul sudamericano, sicuramente Cortázar, sempre per motivi di maestria nella brevità; Adolfo Bioy Casares, sempre di quel giro lì, se lo vogliamo chiamare così; poi gli autori dell'Oulipo francese Georges Perec, Queneau, Roubaud per una questione di inversione dell’equilibrio tra il contenuto e la forma, cioè io sono convinto che il contenuto sia la forma, quindi una volta che la forma è azzeccata, hai fatto letteratura o comunque hai fatto qualcosa che c’entra con il mezzo che hai deciso di utilizzare ed è una questione anche di consapevolezza di quello che si sta facendo. Cioè, se io agisco nel cinema, a mio parere devo prima di tutto preoccuparmi  del fatto che sto utilizzando delle immagini in movimento, e una volta che ho fatto quello posso inserire il contenuto in una forma che sia quella, altrimenti non ci sarebbe differenza tra fare un film e scrivere un romanzo.
Poi, tra gli italiani, apprezzo sicuramente Calvino, ma per derivazione. In realtà ho cominciato a leggere prima Calvino, poi sono arrivato a loro e mi sono reso contro che era per derivazione che leggevo Calvino. Ultimamente sto leggendo un bel po’ di Buzzati.
Per andare indietro sicuramente Laurence Sterne, che andava oltre l’avanguardia a metà del Settecento e che prendeva in giro il romanzo ottocentesco quando ancora questo non esisteva. Per me questa è una cosa geniale. In Laurence Sterne c’è tutto, tutto quello che adesso consideriamo incredibilmente sperimentale, anche se considerare sperimentale ciò che esisteva già tre secoli fa è strano.
Poi sicuramente Cervantes. Chi altro? Andando indietro indietro – vabbè non andiamo troppo indietro! (ride) – Melville. Di Melville sicuramente Moby Dick, ma di più mi ha influenzato Bartleby lo scrivano. Stevenson, Jules Verne. Vabbè, basta! (ride).
B: Quindi anche l’avventura…
CS: Assolutamente! A me interessa l’avventura sempre per motivi chiaramente di divertimento, perché io sono convinto che la letteratura sia una cosa divertente, nonostante quello che dicono a scuola, perché poi il danno viene da lì: se mi si presenta la letteratura come una cosa su cui suicidarmi, allora è chiaro che io uscito da scuola non leggerò mai più un libro. Il punto è che la letteratura è divertente e lo è anche quando non lo sembra. Altro autore di riferimento: Edgar Allan Poe. Era un autore dotato, a parte di una perfezione nei racconti, anche di un’ironia strabordante. Il mito di Edgar Allan Poe come autore macabro finisce dove si supera il contenuto e si bada alla forma: qui ci accorgiamo che lui si divertiva come un matto. D’altra parte l’hanno trovato morto ubriaco in un seggio elettorale, cioè anche quando è morto ha fatto il cretino.
Qual era la domanda?
B: Chi erano gli autori a cui ti ispiri. Credo che tu abbia risposto in maniera molto esauriente.
CS: Ma sicuramente ce n’è qualcun altro.
B: Da dove prendi l’ispirazione? Dalla vita quotidiana o è tutta fantasia?
CS: In realtà, la parola ispirazione non mi piace.
B: Sì, non è molto corretta.
CS: Non mi piace per niente perché scrivere qualcosa è semplicemente applicare chiaramente quello che si vive, ma come in qualsiasi altra cosa bisogna applicarlo con un’ottica diversa. Degli elementi autobiografici ci sono sempre, per forza di cose, ma io tendo a eliminarli o a modificarli il più possibile perché non mi interessa che poi si va a dire: “Oh, vedi qui, questo autore dice questo perché gli era successo quest’altro”. Non mi interessa assolutamente, quello si chiama “gossip”, e non c’entra niente col raccontare una storia. È per questo che non parto mai dal contenuto, ma parto sempre da un’idea strutturale o da un concetto. Nel caso del titolo della mia raccolta, Un tebbirile intanchesimo – che è “un terribile incantesimo” detto in maniera dislessica – l’idea era quella concettuale di scrivere un racconto – non avevo assolutamente in mente la trama e neanche la struttura all'inizio – che si basasse su un difetto linguistico, su una devianza linguista. Una volta che mi è venuto in mente questo, mi è venuta in mente la dislessia, che non ha niente a che fare con la mia vita privata. E una volta che mi è venuta in mente la dislessia, mi è venuta in mente la struttura, o meglio l’espediente formale, cioè di scrivere il racconto interamente in “dislessico”, se si può usare questo termine per una lingua; e, al contempo, di far rientrare la dislessia come agente nella trama stessa del racconto: cioè, la dislessia non è solo il mezzo con cui ho scritto il racconto, ma è anche la chiave per risolvere l'intanchesimo.
Quindi, sempre prima l’idea concettuale e strutturale, e poi una trama adattata a quell'idea, mai il contrario, mai prima la trama e poi il resto. Questo è quello che faccio di solito. Ci sono delle eccezioni, di cui mi pento fortemente. In questa raccolta ce ne sono solo due su venticinque, quindi sto andando bene (ride).
B: Scrivi da sempre, da quando eri bambino, o è un qualcosa che hai maturato crescendo?
CS: Ho scritto dei racconti quando avevo nove anni, poi più nulla fino ai diciassette – diciotto, in cui ne ho scritti tre o quattro, poi più nulla fino a cinque anni fa. Quindi no, è una cosa che in maniera sistematica faccio da pochissimo tempo, al contrario di quello che faccio con la lettura: dai tredici – quattordici anni in poi non ho mai smesso.

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